sabato 20 novembre 2010

E adesso aspetterò domani per avere nostalgia

 

Signora libertà grazie per avermi accompagnata in questo viaggio che ormai è giunto al termine. Luoghi incredibili e orizzonti infiniti mi hanno e ci hanno accompagnati per due mesi dal nord al sud della Bolivia; ora immagini che significano emozioni non lasciano i miei occhi al buio...


 Il sale è deserto bianco e infinito e quando la notte avvolge la terra ad Uyuni le stelle che la toccano accendono il cielo di mille diamanti.


Ogni volto che ricordo è un nome che porta con sé occhi che guardano alla natura di questa terra, terra dove si prega la pachamama e tutto le si restituisce, terra d'Ande dove il cielo sembra più vicino e sotto questo cielo  macheranno le note italaine della nostra chitarra.


Viaggiare è conoscere, raccogliere e per sempre non dimenticare.


mercoledì 27 ottobre 2010

Don Aurelio



Avevo fretta di conoscere don Aurelio.
Una sensazione mi dice che probabilmente è il kallawaya che cercavo.
La pachamama, tramite le foglie di coca, mi dice che i luoghi sacri mi han chiamata, che sono qui per questo. Una domanda e la foglia cade, poi un'altra e un'altra ancora.
"Sara, hai un'associazione? Un gruppo di persone che lavorano con te?"
"Sì"
"Bene, queste foglie significano questo, vedi..."
E via così, don Aurelio mi sta conoscendo quardando le foglie e guardando i miei occhi.
"È la nostra relazione con la natura, con che cosa potremmo rimpiazzarla? Attravreso la coca comunichiamo con la terra e con le anime. Nella terra siamo e terra ritorneremo, ci reincarniamo anche nelle piante, torniamo alla pachamama e la coca è un prodotto della terra, non come le carte" Alcuni kallawaya leggono le carte ma don Aurelio dice che "è una confusione che ormai persiste da 500 anni", don Miguel invece sostiene che i tarocchi siano di derivazione incaica.


"E perché nelle tavolette di zucchero di offerta alla pachamama ho visto delle figure del diavolo e della Vergine?"
"Anche quello è una confusione con la quale ormai conviviamo. Vedi io ora indosso queste scarpe da tennis perché sono più comode e mi tengono più caldo delle ciabatte, vedi anche questa è una confusione.
Vedi Sara, è una confusione"
Questo è il sincretismo con il quale si convive e si combatte.
"Le domande che posso fare alle carte sono diverse da quelle che posso fare alle foglie di coca?"
"Certo, certamente! La coca è più completa"
"Don Aurelio, come faccio a capire se un kallawaya è sincero o meno? Mi han detto che non tutti sono sinceri"
"Beh, non è facile, ma ce ne sono alcuni che lo fanno per soldi, e lì vedi. La pachamama non chiede mai dei soldi, è il malato o chi necessita di un rituale che offre un prezzo. C'è chi dice che sono matto, ma io dico che i soldi non fanno la felicità, bisogna tenersi pulito l'anima e solo così puoi essere felice.
Da quando siamo stati dichiarati patrimonio dell'unesco molti si dichiarano kallawaya. Però non si può dare una tariffa, questo crea danno alla nostra cultura e per questo rischia di perdersi,
i veri kallawaya lavorano la terra e stanno sempre in contatto con la pachamama, il contatto deve essere quotidiano."
DoñaJustina, la sposa di Don Aurelio, ci porta un mate di camomilla e per renderlo più dolce ci aggiunge della Stevia, un dolcificante naturale "perché lo zucchero bianco è veleno, e così quello di canna, il miele va bene"


"Sara, c'è da fare un rituale"
"E quando? Domani devo partire..."
"Il tempo è qui. E' fermo, noi siamo i passanti. Vedi gli uccellini alla mattina? Ti parlano. Il vento accarezza la tua pelle; questa è la pachamama."
Cala la sera e torniamo verso il nostro alberghetto... una mezz'ora a piedi mente le nuvole lasciano spazio alla luna che ci illumina la strada.
E' buio nella strada della montagna ma non ho paura.


Coma fai a capire gli abitanti di un luogo se non vivi come loro?



Tre ragazze a Curva. Sono state due notti e tre giorni memorabili. Già la strada per arrivare a Curva potrebbe intimorire qualcuno: una strada non  asfaltata che sale per le montagne, larga tre metri, senza barriere, a sinistra la montagna a destra il burrone. Due ore di salita e di sobbalzi.
Siedo vicino ad una giovane donna con il suo bambino, Luis Angel, che mi sorride mentre mangia i biscotti. Con la donna non parlo molto, ci sorridiamo e basta, lei aspetta che mi sposti per avre lo spazio di accomodare e cambiare il bambino.


Scendiamo a Lagunilla e la prima cosa da fare è cercare Umberto: il padrone dell'ostello. Vado a casa sua e per fotuna è qui, prende le chiavi e ci fa accomodare. L'ostello è una casetta tutta per noi molto bella e accogliente, non proprio pulita, e con qualche animaletto ospite.
Sono quasi le cinque del pomeriggio e andiamo a Curva, a circa 15 minuti a piedi, a prendere quel poco che ci manca. Sapevamo che avremmo trovato poco, ma non immaginavamo che nessuno vendesse acqua, eppure... qui si bevono solo bibite confezionate.
Alla tienda della piazza trovo doña Teresa, la ragazza che mi sedeva affianco in autobus, nemmeno lei ha acqua, le sorrido e prendiamo qualche verdura da cucinare.

Maribel è una gentilissima odontoiatra che lavora al centro ospedaliero di Curva, centro bellissimo perché oltre ad essere centro medico è anche consultorio Kallawaya (medici tradizionali). Qui le due medicine sembrano lavorare assieme e nello stesso luogo si può incontrare un dottore e un kallawaya, il paziente può quindi seguire entrambe le cure, o decidere di prendere delle medicine allopatiche e chiedere un rituale per la pachamama o consultare un kallawaya per organizzare un riuruale utile a richiamare la sua anima che lo ha abbandonato dopo uno spavento.
Maribel mi aiuta a trovare dei kallawaya disponibili a parlare di sè e del loro lavoro, e tra un appuntamento vero e uno mancato riesco a parlare con don Ramon e don Miguel, lo sciamano invece non c'è e nemmeno don Maximo, probablimente è a La Paz. Tutto questo perché i kallawaya viaggiano molto, sono conosciuti come medici itineranti e la loro forza sta nel fatto che costantemente si radunano per confrontare le esperienze di ciascuno e mantenere vivo il loro sapere, sparso per gran parte del sud America.
Dopo la prima chiacchierata con don Ramon torniamo a casa. Sono le 8 di sera e camminiamo nel buio per arriovare a casa e scoprire che Umberto non è passato ad aprirci gli armadi... vado a casa sua ma stanno tutti dormendo.
"Scusi Umberto! Scusi per il disturbo ma ci servono le chiavi...grazie...anh, c'è acqua calda?
"Agua caliente? No hay"
"E quanto dura la luce?"
"Non lo so, dipende..."
"Vale, muchas gracias, buenas noche.... disculpame por la molestia."

Alla mattina ci svegliamo avvolte nella nebbia. Il paesino sembra sospeso nel nulla e ogni passo verso Curva mi regala un'apparizione, qualcuno che appare dalla nebbia "buen dia", e scompare nella nebbia alle mie spalle, verso la sua meta.


Maribel mi aiuta ancora e facciamo il giro del villaggio fino al cimitero e su nel luogo sacro, dove i kallawaya si ritrovano per le loro cerimonie alla pachamama. I luoghi sacri sono otto e ognuno guarda un punto cardinale, sono luoghi ricchi di energia della terra, del vento, della montagna e dai quali si può vedere un pesaggio infinito: le ande con i loro terrazzamenti e le loro valli, qualche paesino e delle acquile che volano. C'è una croce. "E' la lotta della Chiesa Cristana contro i luoghi che ritiene pericolosi" mi spiega don Aurelio "qui i preti han sentito un'energia diversa e per combattere ciò che loro chiamano demonio han posto una croce, è la loro difesa." I kallawaya non si arrendono e continuano a rispettare la natura, ad organizzare riruali e ad offrire doni e chiedere aiuto e protezione alla pachamama e a necessità si recano nel loro luogo sacro, nonostante la croce.


Torno a casa con delle uova in una mano e con l'altra trascino della legna, incontro una vecchia signora carica di legna sulle sue spalle e un asino che la segue; sicuramente la sua legna avrà riscaldato la sua casa meglio della nostra!
Le ultime chiacchiere con i kallawaya e poi dobbiamo partire anche non è chiaro l'orario di partenza dell'autobus: sembra alle 12:00, un vecchio del paese dice 11:30 forse 12:00 e l'autista 11:00... forse è per questo che ieri una delle tre foglie di coca è caduta storta quando le ragazze han chiesto del viaggio a don Ramon. In ogni caso alle 11 siamo in strada e dopo 10 minuti arriva puntuale la pioggia, l'autobus dopo 20.
L'autobus scende tra la pioggia e la nebbia. Il viaggio è ancora più spaventoso e la strada è peggio della famosa carretera de la muerte.
Lasciamo Curva avvolta nella sua nebbia. Don Ramon scende con noi per un incontro importante e mi lascia la sua voglia di parlare della sua consocenza e alcune preziose rivelazioni sulle piante medicinali, lascio don Miguel e i suoi racconti dei rituali e dei tarocchi e lascio anche doña Teresa, che incontravo sempre in questi giorni e che solo prima di partire ho saputo la sua triste storia.

Il lago del puma



Aspettavo che l'acqua diventasse fuoco e che l'azzurro si lasciasse coprire dall'arancione e dal rosso, speravo che il sole mi ragalasse questi colori per poi lasciar dimorare le stelle in cielo; l'indomani poi sarebbe spuntato nuovamente in un gioco che ormai esiste da sempre perché rinasce con gli stessi colori con cui si fa salutare. Vengono invece verso di me, verso il lago, nuovole dense e pesanti. Le Ande non tradiscono la loro magia e mi regalano un'altra emozione: il temporale sul lago. Questa notte gli spiriti del lago si stan scatendando e io pescatore devo andarli a pregare: non voglio annegare.
Non credo ai miei occhi: la pioggia sta diventando neve, i fiocchi cadono pesanti e grandi ricoprendo il verde dell'erba dei campi. E' primavera qui a 3800 metri, è primavera qui sul Titicaca, è primavera qui sotto la neve.
Domattina sarà stupendo anche se la neve renderà diffcile, se non impossibile, il mio arrivo a Charazani, paesino sperso tra le Ande e che per farsi raggiungere ci chiede di superare un passo di 5000 metri.
Cerco di non preoccuparmi e dal divano scrivo e guardo fuori, ascolto la neve silenziosa che quasi mi fa credere di non esserci, mi fa sperare che domani sarà tutto sciolto. Il silenzio è attorno a me nell'ampia stanza con il pavimento a scacchera rossa e gialla e con due statue di cera che mi guardano; alla parete un grande carta della Bolivia in cuoio del 1859.
Ora è buoio e quache timida luce fa capolino dall'altra sponda del lago e ci tiene compagnia. La dueña, con la sua gonna ampia e colorata, entra con in mano l'erba di cedron per farci fare il mate caldo.
Il caldo del sacco a pelo mi avvolge, in lontanza sento cani abbaiare e il vento raccoglie il loro lamento e lo porta a me; lascio la notte alla notte e attendo domani, attendo le Ande e il lago, attendo che il sole sciolga la neve e mi permetta di giungere a Charazani e dai suoi Kallawaya.


lunedì 4 ottobre 2010

Don Isaia

Ora che sono in moto l'aria diventa ancora più fredda ma le lievi lacrime che affiorano non sono solo per il vento. Succede sempre così quando inizio a conoscere un luogo; e lo vivo davvero nel momento in cui chi lo abita me lo presenta attraverso i racconti e le esperienze, donandomi frammenti della propria vita. La luce del sole sta calando quando don Isaia mi abbraccia e mi ripete "non si dimentichi di noi, non si dimentichi di noi", mi guarda salire sulla moto e mi augura buona fortuna.


Abbiamo appena finito di pranzare ed arriva il momento del saluto:
"Sara, quando tornerà?"
"Non lo so, spero presto. Ora sarò in giro per la Bolivia per due mesi, forse finiti questi due mesi tornerò, o forse dovrò tornare in Italia..."
"Quando tornerà qui si ricordi di venire da me"
"Certo"
"E le insegnerò tutto quello che so, le piacerebbe sapere delle piante e come curare?"
"Certo, è per questo che sono qui"
"Allora sa dove trovarmi"
"Posso tornare questo pomeriggio? E' a casa?"
"Sì sono a casa"


Don Isaia vive fuori dalla città dove le strade non sono asfaltate e dove le case sono di legno o terra. Il suo salotto è all'aperto e mentre parliamo la sua signora sta cuocendo la cena e i bambini giocano felici nella terra. Il tavolo e le sedie sono di legno come anche la piccola costruzione alla nostra destra che ospita un letto. La proprietà è recintata e i bambini corrono entrando e uscendo dalla porta.
Isaia sorride orgoglioso sporgendomi i libri dai quali ha studiato, li guarda come fossero la prova del suo sapere che non si limita alla semplice conoscenza delle erbe medicinali ma si estende al mondo dell'occulto e della magia nera e verde, ovvero quella dell'amore. E' importante conoscere per sapere chi combattere perché la visione totale della complessità del reale ci permette di muoverci con cognizione di causa. Isaia ha una sua personale idea di ciò che è bene e di cosa significa aiutare, si definisce operatore di magia bianca, anche se di magia non si parla dato che opera con erbe, radici e cortecce. La sua scelta di diventare uomo di medicina nasce da una risposta vittoriosa alla sua cecità, cecità dovuta ad un'azione maligna di uno stregone probabilmente mosso da qualche persona invidiosa. Qui la conoscenza erboristica si fonde con la religione e con l'azione divina che porta ad una soluzione: il Signore gli dà la forza per guarirsi da solo. Chiede a sua moglie di prendere le foglie di una certa pianta e di applicarle sui suoi occhi. Il giorno seguente riacquistò la vista e iniziò la sua carriera da erborista studiando alla Sobometra de La Paz.
È un racconto di vita molto comune tra i medici tradizionali, anche africani, i quali devono prima vivere una forte esperienza di malattia che consente loro di acquisire la conoscenza della sofferenza per poi sconfiggerla, questo percorso gli permette di testare il rimedio per poi proporlo ad altri bisognosi.
Oltre agli attestati che con cura ripone in una cartellina mi sporge con orgoglio delle piccole lettere di pazienti che dichiarano di esser guariti dopo un suo intervento. Le parole battute a macchina e le rughe sul viso di Isaia non tradiscono gli anni trascorsi a compiere questo lavoro, che purtroppo ora nessuno dei suoi figli vuole intraprendere.

sabato 2 ottobre 2010

1000 km ovvero due giorni por la carretera

Ande, amazzonia, pampa e foresta pre-savana, tutto questo c'è in Bolivia e tutto questo noi abbiamo visto dal nosto pulmino. Due giorni infiniti di viaggio che ci han regalato immagini meravigliose e una stanchezza non indifferente.


Incallajta significa terra degli Inca e si trova a 132 km ad est ci Cochabamba, è l'estremo avamposto orientale dell'impero Inca, abbandonato nella prima metà del 1500.
Qui siamo immersi nel paesaggio andino, abbraciati da rotonde e morbide montagne di color verde scuro e steppose.


Renè intinge l'indice nel calice di vino, lancia una goccia a terra e si tocca la fronte, la bocca e il cuore perché prima di mangiare e bere qualunque cosa lo si dà alla Pachamama. Renè è un cochabambino conosciuto alla Isla, un insieme di chioschetti allegri dove si può mangiare tacos, anticuchos, hamburghesa, e sevice (zuppa di pesce crudo). Mentre mangiamo passa un ragazzo con i capelli lunghi e alcuni monili creati da lui, è Renè, ci fermiamo a fare amicizia e ci consiglia di finire la serata al Fusion: un locale gestito da un Italiano. E così, con Giancarlo e Renè, trascorriamo le ultime due sere a parlare di Bolivia e del nostro viaggio tra un bicchiere di vino e foto di Venezia e Pordenone alle pareti. Le fetuccine al pomodoro e melanzane che ci ha preparato Giancarlo sono state il nostro saluto all'Italia e il sorriso e i racconti di Renè sono stati il nostro lasciapassere


-Giancarlo, quanto tempo ci mettiamo ad arrivare a Villa Tunari?
-Beh, dipende da quanti camion trovate.
Infatti la giornata di giovedì la passiamo in viaggio... stupendo assaporando con gli occhi ciò che regala il paesaggio: dal clima andino passiamo alla foresta amazzonica. Villa Tunari si trova a 300 metri s.l.m. ma prima attraversiamo un passo a 3800 m. s.l.m.; il resto è tutta fantasia della natura.
Per pranzo Raphael ci porta al Conquistador, un ristorante elegente con un allevamento di pesce. Non eravamo troppo felici di essere lì e l'ironia del nome ci fa ricordare che siamo alla ricerca di qualcosa di più autentico e non turistico, siamo alla ricerca della Bolivia più "vera" e lontana dalla contaminazione occidentale.E' pur vero che anche questa è una realtà: è un aspetto della Bolivia di oggi e luoghi come ristornati e alberghi che rispecchiano lo stile occidentale ci sono non solo per i bianchi ma per gli stessi boliviani che desiderano, e possono permettersi, questo tipo di turismo.






L'ONU nel 1952 equipara la masticazione delle foglie di coca all'assunzione di droga. L'uso tradizionale è però stato concesso a stati come Bolivia, Perù, Colombia e Venezuela.
Attualmente ogni famiglia può coltivare fino a 4000 metri quadrati di coca e ne ricava 4 raccolti l'anno. Si chiude un rametto tra il pollice e l'indice e li si fa scorrere fino alla fine così le foglie rimangono nella mano e la pianta non viene danneggiata. Dopo 4 ore di essicazione le foglie sono pronte per il mercato. Con le foglie di coca si può produrre sapone, liquore e tè. La masticazione delle foglie è molto frequente principalmente nella zone andina perché aiuta la regolarizzazione della pressione, altri effetti sono quelli dell'eliminazione degli stimoli della fame e del sonno. All'ospedale di Chipiriri la suora fa persente che  il problema della denutrizione è lagato sia al fatto che alcuni bambini vengono abbandonati perché i genitori stanno nei campi a coltivare sia perché chi mastica molto perde lo stimolo della fame. E' anche vero che la coca ha ottimi scopi terapeutici e che risolve il problema dell'altezza, sia con il metodo della masticazione sia sotto forma di mate (tisane) che aiuta anche per vari problemi intestinali.


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Altri due giorni di viaggio per raggiungere Trinidad con sosta a San Javier
Gelateria ambulante al mercato. Passo a 3800 metri s.l.m.

 

Il mazziere ha il compito di mantere l'ordine nel luogo sacro e di far uscire chi non lo rispetta

Tutti i giorni alle 18 inizia l’ora del suono e gli animali della foresta cantano in coro fino al tramonto, solo una cosa sola li fa smettere: un pericolo. Improvvisamente la foresta è in ascolto, in paurosa attesa.
Qui, nel taglie e brucia, il vento porta con  il silenzio e lascia la desolazione di questo luogo: un cimitero che odora di legno bruciato dove la cenere entra nella pelle e negli occhi, che rispondono con lacrime.
 

martedì 21 settembre 2010

Pianura intorno alla laguna

Cochabamba è la prima tappa di questo avventuroso viaggio antropologico. Già dall'aereo si nota la magia di questa terra dove le cime delle Ande spuntano dalle nuvole e si alternano tra verdi chiari e verdi scuri.
Le vie della città sono strette e caotiche, le macchine suonano ad ogni incrocio per avvisare che stanno arrivando e i pedoni... i pedoni attraversano correndo perché per loro non ci sono semafori. Una scacchiera di case vecchie e nuove lascia spazio a due grandi piazze: Plaza 14 septiempre e Plaza Colon. Plaza 14 septiembre è viva e colorata, le persone che passeggiano o stanno sedute sulle panchine e una signora anziana si fa lucidare le scarpe da una giovane. Le donne cholitas vendono pan dulce, spremute di arancia e popcorn dolci e altre gallette fatte di mais. Sono immediatamente riconoscibili perché vestono con una gonna a pieghe molto larga e abbondante, hanno due lunghe trecce nere e un cappello bianco decorato che le protegge dal forte sole. Queste donne hanno deciso di vestirsi tradizionalmente ma di vivere in città e così regalano un colore in più a questa città che è un misto di tradizione e ricerca di occidentalizzazione sia nelle persone che nelle case e nei negozi.

E' sera e l'aria è fresca e in piazza Colon si accendono le prime luci di bar improvvisati. Passeggio vicino al laghetto e una donna sta preparando una lunga tavola con la tovaglia, i piatti e bicchieri coordinati sul verde. Più avanti qualcuno sta praparando la griglia e a breve la tavolata si riempirà.



Il mercato è un'esplosione di suoni, odori, colori e persone. Un enorme labirinto ordinato diviso in settori. Entro in quello che dovrebbe essere l'inzio e mi trovo circondata da torte giganti e coloratissime, dolci di panna e cioccolato che sembrano finti da quanto sono perfetti. Mi perdo tra la frutta e i tessuti, sento un profumo e decido di seguirlo, dove mi sta portando? Alzo gli occhi e di certo non mi aspettavo di vedere quello che mi si presentà lì appeso: file e file di feti di lama secchi. Il profumo che sentivo era di incenso sicuramente: sono arrivata nella zona "magica" del mercato. Qui si vende tutto il necessario per offrire doni e chiedere fortuna, salute, amore e ciò che si desidera alla Pachamama. Mi fermo a parlare con la donna del banco, G. e le chiedo di raccontarmi a cosa servono i feti. G. mi dice che come noi mangiamo la carne così la mangia anche la Pachamama e mi assicura che i Lama non vengono uccisi per questo ma che sono feti di lama morti o che haa vuto problemi di parto. Nel banco vedo un foglio di carta con sopra del terriccio e delle placchette bianche disegnate e 100 dollari, è un preparato per quando si prega la Pachamama. Il terricico è terra e foglie di coca con sopra del cotone, le placchette simboleggiano ciò che si vuol chiedere, infatti raffifurano scene d'amore, di lavoro, di salute, e la banconota serve per alimentare il fumo che si va a creare con del carbone. G. mi permette di fare delle foto al suo banco ma non a lei.
Non è la priam volta che incontro questa reticenza alla fotografia e già sapevo che qui sarebbe stato difficile ritrarre persone, il timore è che gli venga rubata l'anima: ognuno di noi possiede più anime collegate alle principali parti del corpo e spesso un dolore fisico è collegato al furto di quell'anima.
Esco dal mercato, esco dai colori dell'artigianato e mi ritovo in città con pullman e macchine e venditori di arance agli angoli della strada.

Oggi è il mio ultimo giorno a Cochabamba, domani si parte! Questa notte la passeremo in tenda nel giardino della casa dell'autista. Ieri abbiamo trovato una macchina e un pulmino per iniziare la nostra avventura e l'autista è stata una sopresa: si è offerto lui non appana ha scoperto della nostra attività. Ha risolto i nostri problemi solamente con 4 domande:
Quando si parte?
In quanti siete?
Dove andiamo?
E a quanti gradi sotto zero arriviamo?
Bene, ha detto, domani sono pronto.