martedì 21 settembre 2010

Pianura intorno alla laguna

Cochabamba è la prima tappa di questo avventuroso viaggio antropologico. Già dall'aereo si nota la magia di questa terra dove le cime delle Ande spuntano dalle nuvole e si alternano tra verdi chiari e verdi scuri.
Le vie della città sono strette e caotiche, le macchine suonano ad ogni incrocio per avvisare che stanno arrivando e i pedoni... i pedoni attraversano correndo perché per loro non ci sono semafori. Una scacchiera di case vecchie e nuove lascia spazio a due grandi piazze: Plaza 14 septiempre e Plaza Colon. Plaza 14 septiembre è viva e colorata, le persone che passeggiano o stanno sedute sulle panchine e una signora anziana si fa lucidare le scarpe da una giovane. Le donne cholitas vendono pan dulce, spremute di arancia e popcorn dolci e altre gallette fatte di mais. Sono immediatamente riconoscibili perché vestono con una gonna a pieghe molto larga e abbondante, hanno due lunghe trecce nere e un cappello bianco decorato che le protegge dal forte sole. Queste donne hanno deciso di vestirsi tradizionalmente ma di vivere in città e così regalano un colore in più a questa città che è un misto di tradizione e ricerca di occidentalizzazione sia nelle persone che nelle case e nei negozi.

E' sera e l'aria è fresca e in piazza Colon si accendono le prime luci di bar improvvisati. Passeggio vicino al laghetto e una donna sta preparando una lunga tavola con la tovaglia, i piatti e bicchieri coordinati sul verde. Più avanti qualcuno sta praparando la griglia e a breve la tavolata si riempirà.



Il mercato è un'esplosione di suoni, odori, colori e persone. Un enorme labirinto ordinato diviso in settori. Entro in quello che dovrebbe essere l'inzio e mi trovo circondata da torte giganti e coloratissime, dolci di panna e cioccolato che sembrano finti da quanto sono perfetti. Mi perdo tra la frutta e i tessuti, sento un profumo e decido di seguirlo, dove mi sta portando? Alzo gli occhi e di certo non mi aspettavo di vedere quello che mi si presentà lì appeso: file e file di feti di lama secchi. Il profumo che sentivo era di incenso sicuramente: sono arrivata nella zona "magica" del mercato. Qui si vende tutto il necessario per offrire doni e chiedere fortuna, salute, amore e ciò che si desidera alla Pachamama. Mi fermo a parlare con la donna del banco, G. e le chiedo di raccontarmi a cosa servono i feti. G. mi dice che come noi mangiamo la carne così la mangia anche la Pachamama e mi assicura che i Lama non vengono uccisi per questo ma che sono feti di lama morti o che haa vuto problemi di parto. Nel banco vedo un foglio di carta con sopra del terriccio e delle placchette bianche disegnate e 100 dollari, è un preparato per quando si prega la Pachamama. Il terricico è terra e foglie di coca con sopra del cotone, le placchette simboleggiano ciò che si vuol chiedere, infatti raffifurano scene d'amore, di lavoro, di salute, e la banconota serve per alimentare il fumo che si va a creare con del carbone. G. mi permette di fare delle foto al suo banco ma non a lei.
Non è la priam volta che incontro questa reticenza alla fotografia e già sapevo che qui sarebbe stato difficile ritrarre persone, il timore è che gli venga rubata l'anima: ognuno di noi possiede più anime collegate alle principali parti del corpo e spesso un dolore fisico è collegato al furto di quell'anima.
Esco dal mercato, esco dai colori dell'artigianato e mi ritovo in città con pullman e macchine e venditori di arance agli angoli della strada.

Oggi è il mio ultimo giorno a Cochabamba, domani si parte! Questa notte la passeremo in tenda nel giardino della casa dell'autista. Ieri abbiamo trovato una macchina e un pulmino per iniziare la nostra avventura e l'autista è stata una sopresa: si è offerto lui non appana ha scoperto della nostra attività. Ha risolto i nostri problemi solamente con 4 domande:
Quando si parte?
In quanti siete?
Dove andiamo?
E a quanti gradi sotto zero arriviamo?
Bene, ha detto, domani sono pronto.

venerdì 17 settembre 2010

Per la stessa ragione del viaggio


Viaggiare è per me conoscere l’altro, domare e al contempo alimentare la mia costante curiosità di scoprire i mille colori e le mille forme del mondo, assaggiare la vita nelle sue molteplici realizzazioni, scoprirne la vitalità per chiedere ad ogni anima cosa vede all’esterno di sé.
Non è la meta che fa il viaggio ma il viaggio è fatto dalla ricettività di chi si mette in cammino, che intende scoprire e soprattutto imparare dai mille modi di stare al mondo, di essere nel mondo. La meta è una tappa di un viaggio che forse non termina mai perché l’esperienza continua a vivere dentro di me: da dopo il primo passo sento continua l’evoluzione del mio pensiero.

Questa mattìna sono partita da Venezia per arrivare a Madrid, città che non avevo ancora vistato e nella quale mi fermerò solamente una notte. 
Io e Nicola passeggiamo per Barajas alla ricerca di un posticino dove pranzare. La cittadine è davvero piccola e non particolarmente caratteristica, le strade sono in salita e dall'alto di esse si può vedere la pista di atterraggio.
Dalla piazza principale ci addentramo in una via che sale...
-Dove vuoi mangiare?
-Lì come ti sembra?
-Che bella quella frutta, mentre decidiamo mi prendo una pesca, guarda che colore!
-Hola, que te falta?
-Esta, solamente una
-Tomala...
-Gracias, quanto vale?
-Nada, es por ti guapita, que te vaya bien!


E così con un sorriso, una pesca e un raggio di sole che spunta ci prendiamo qualcosa da mangiare e ci sediamo in una panchina in piazza.
Non può mancare il dolce: muffin ai frutti di bosco con crema di latte all'interno! Il cameriere della pasticceria incuriosisce Nicola:
-Perdona, una pregunta: de donde eres?
-Yo soy de Bolivia.

Un boliviano di Cochabamba, la nostra prima tappa! Così parliamo un pò della Bolivia e della nostra ricerca prima di salutarlo e prepararci ad andare a Madrid.

Senz’altra meta che la propria perdizione 
è così che intendo pormi per scoprire e riscoprire emozioni e persone in ogni istante, per scoprire e conoscere l'altro.

Ora vi scrivo da un ostello in centro a Madrid, un posto bellissimo con ragazzi e ragazze provenienti da ogni dove, ognuno con la sua storia e il suo motivo per essere qui. Siamo nel salotto comune e ce la raccontiamo. Parlo anche con Gigi, uno spagnolo di origini italiane che lavora qui e continua a dirmi che non capisce come tutti questi ragazzi si mettano al pc per ore, non capisce come possano stare anche un'ora e mezza a chattare in facebook: "siamo nella capitale" dice "vai a farti un giro! Cosa fai qui?!" Ed ha ragione... per questo il post di oggi è corto... vi chiedo scusa, vado a prendere Martina alla metro e salgo de fiesta con i miei compagni di viaggio e chi ho conoscoiuto qui.

lunedì 13 settembre 2010

Uno zaino per...






Una spedizione

60-70 giorni…magari 90

Abbigliamento per un clima dai 30̊ ai -10̊

Due paia di scarpe per un itinerario dai 237 m.s.l.m. ai 4090 m.s.l.m.

Due occhi e un diario di campo per più di 5000 km

Tre jeep per un’equipe di ricerca

Una cartina geografica e un pennarello giallo per segnare il nostro arrivo a Cochabamba (2548 m.s.l.m.)
E da qui inizia l’avventura.
Ciò che sappiamo è che ci serviranno 3 giorni per alcuni preliminari organizzativi: un seminario con docenti e studenti delle università di Cochabamba e acquisti di attrezzatura tecnica come tende, zanzariere, lampadine, pala, piccone per scavare… e materassini.

Dal 18 settembre al 1 ottobre prenderanno vita i nomi di Cochabamba, Chapare, Villa Tunari,San Javier e Trinidad:
-Da Cochabamba discesa verso il Chapare. Prima tappa a Villatunari e immersione nella realtà economica che ha messo in moto i diversi movimenti migratori di una popolazione dedita all'agricoltura.
Argomento di ricerca: coltivazione della coca e la conseguente nascita dei movimenti.
-Seconda tappa: San Javier, in quella che è stata una missione gesuitica all'epoca delle Reduciones. Da San Javier proseguiremo il viaggio direttamente a Trinidad (237 m.s.l.m.) con visita di alcune aree tropicali (Mmnorè e dell'Ibare).
Argomento di ricerca: analisi delle antiche strutture agrarie attribuite alla cultura Arawak e confronto con gli attuali sistemi economici d'uso della terra. Relazione tra le aree tropicali umide inondabili con quelle non inondabili oggi utilizzate soprattutto dalle aziende zootecniche. Tre giorni verranno trascorsi all'interno di un'azienda latifondista non lontana dalle aree inondabili dove oltre mille anni fa sono stati costruiti canali e terrapieni da popolazioni amazzoniche preincaiche.

Dal 2 ottobre al 17 ottobre si risale:
Trinidad - La Paz 3640 m.s.l.m. - Achacachi - Charasani 3200 m.s.l.m.
-Prima tappa La Paz: contatto con le università, con l'ambasciata italiana in Bolivia e con i ministeri di riferimento come il viceministero della medicina tradizionale.
Argomento di ricerca: analisi del territorio in relazione al processo storico culturale tiawanaco, molle, incaico e coloniale.
-Seconda tappa: Lago Titicaca. Permanenza per almeno una settimana nelle comunità di Charasani e Curva.
Argomento di ricerca: attività degli Sciamani Kallawaya eredi della medicina tradizionale incaica e tiawanacota. Possibilità di intervistare gli amministratori locali e alcune famiglie indigene.

18 ottobre - 3 novembre
La Paz - provincia Loayza - Uyuni  3656 m.s.l.m. - Potosi 4090 m.s.l.m. - Sucre 4090 m.s.l.m.

Prima tappa: comunità della provincia Loaisa gravitanti intorno al municipio di Cairoma.
Argomento di ricerca: valutazione dei sistemi d'uso pubblico e privato dell' acqua nei diversi periodi storici degli ultimi duemila anni; dalla fase Tiawanaco a quella postcoloniale.
Obiettivo: realizzazione di un documentario specifico sul valore della memoria geografica in relazione alle strutture sociali e alle diversità sistemiche territoriali. Una nota di approfondimento sarà dedicata alle relazioni tra i ghiacciai che si stanno ritirando e le problematiche relative alla scarsità della risorsa idrica.
Seconda tappa: trasferimento verso Potosi e Sucre fermandoci 4/6 giorni tra S. Ana de Chipaya, lago Poopò e Uyuni per visitare le comunità Chipaya, Uru e il salar di Uyuni.
Argomento di ricerca: raccolta dati sui modelli di vita delle popolazioni locali e agli archivi di Sucre e di Potosì.

3 novembre - 20 novembre verso il ritorno
Sucre - Tarija 1854 m.s.l.m - Santa Cruz 416 m.s.l.m

-Prima tappa: Tarija e dintorni.
Argomento di ricerca: archeologia territoriale e memoria geografica. Ricerca anche archivistica presso il convento Francescano dove si trovano depositati migliaia di testi e di manoscritti relativi al periodo della colonia e alla cristianizzazione dei territori Ava Guarany o Chiriguano.
Argomento di ricerca: comunità Ava Guarany cristianizzate e non cristianizzate che vivono ancora oggi lungo il rio Pilcomayo.

20 novembre - ?
A questo punto non è detto che io rimpatrii. Se le condizioni climatiche me lo permettono l’unica cosa di cui avrò bisogno sarà un altro sapone di marsiglia e un qualche mezzo per tornare dai “miei” sciamani…

venerdì 3 settembre 2010

Ejok Ejoka




L’incontro, l’ascolto, il mettersi in discussione, l’incomprensione e lo scandalo come anche l’apprendere sono esperienze che nascono dalla relazione che l’antropologo si trova a sostenere nel momento in cui va sul campo. Andare è un’espressione all’infinito che con una pennellata di romanticismo affascina e fa fantasticare chi rimane e mette in gioco chi va. Molte sono le fasi del prima e il dopo forse, a volte, non ha fine, di certo non termina con il decollo di un aereo. Ecco un collegamento tra la mia tesi in Eritrea e il campo in Karamoja. Un ritorno in Africa orientale. Nel precedente lavoro mi sono concentrata sulla stregoneria e sulla possessione, un tema che parla di relazioni tra un io e le proprie convinzioni, tra un io e i propri sistemi di credenze, che si sono modificati nel corso della storia e del tempo, che hanno portato a nuovi incontri, relazioni e trasformazioni, anche di quel mondo sovrannaturale e invisibile ma non per questo non presente. E’ anche una relazione tra chi è posseduto e chi non lo è, tra chi ci crede e chi no, tra chi aiuta e chi viene aiutato, tra i cristiani puri e tra chi professa una forma religiosa unendo la fede nel Dio cristiano alla credenza in altre entità come spiriti  e altre figure appartenenti al mondo sovrannaturale. E’ una storia di relazioni con il passato, con il colonialismo, con la propria cultura che si manifesta anche in un unico atto sincretico, quello della persona posseduta da uno spirito zar che si reca in un paesino d’ acqua miracolosa in mano a sacerdoti ortodossi.
Nella terra dei Karimojong ho voluto approfondire la relazione multipla e sincretica all’interno di questa realtà che sembra una ma ne racchiude mille, mille modi di essere e di essere visti. Ho pensato a Moroto come a un fiore, una margherita, una rosa o un fiore d’ibisco con il suo colore e il suo profumo, composto di petali, e ogni petalo è una dimensione relazionale, è un modo di vedere la realtà e un modo diverso di essere visto ed inteso.
La relazionalità riguarda vari livelli: io che incontro i locali, ma prima di averli incontrati di persona li ho incontrati nei libri, descritti con gli occhi di qualcun altro. Poi ci sono loro che incontrano me, non la prima bianca in quella terra, in quella terra di incontri tra bianchi e neri non sempre andati a buon fine. E tanti bianchi, ognuno con un motivo diverso ma tutti lì, che guardano con i loro occhi alla Karamoja e ai suoi abitanti, le voci che emergono maggiormente sono un po’ superficiali perché li descrivono come gente povera, primitiva e senza possibilità di sviluppo, ma allo stesso tempo gente forte e fiera che vive in un ambiente dal quale nessuno di noi ne uscirebbe vivo, gente che necessita di qualche mezzo in più perché non è stupida, e quindi chi aiuta giustifica così la propria presenza in Karamoja, una presenza necessaria affinché i Karimojong possano realizzare una vita migliore. In questa terra vegliata dagli antenati che in cielo vivono come vivevano in terra e dove gli spiriti sono spesso interpellati ci sono andata io, con un approccio antropologico, per incontrare i suoi abitanti e scoprire come loro stessi si guardano e che strategie utilizzano per emergere dal clima di relazioni in cui occhi di bianchi estranei convergono in un unico centro, la Karamoja, e una voce alza la mano, nera, per esporre il proprio punto di vista.

Ho sempre subito il fascino dell’Africa, ricordo ancora l’emozione della prima volta che ci andai e quando fissavo negli occhi le persone in aereo con me, occhi profondi e spesso lucidi, a volte cupi, il mio sguardo sembrava chiedergli il permesso di entrare a casa loro. Quando sono scesa dall’aereo, questa volta ad Entebbe, ho sentito lo stesso profumo caldo di quell’aria africana, difficile da descrivere, ricordava l’odore della terra quando piove, ma secco, ed ha risvegliato in me tutti i ricordi dell’Eritrea. Un'altra relazione da non sottovalutare è il collegamento con la precedente ricerca. In questo secondo campo sono partita molto sicura e poco timorosa dello spaesamento e il trovarsi lontano da casa, in attesa di situazioni ed emozioni già vissute o provate qualche anno prima, ma per quanto possa essere d’aiuto avere un po’ di esperienza ogni contesto è a sé. Ho scelto la dimensione dell’organizzazione non governativa perché sono partita da sola ed è stato impossibile trovare dei contatti in loco, impossibile pensare di prenotare una camera in un albergo in Karamoja e muovermi in autonomia, prima di tutto per questioni di sicurezza. Anche la diffusione consistente di malattie importanti ha avuto la sua rilevanza nella fase di preparazione: la malaria è endemica ed è il rischio principale oltre alla tubercolosi e la meningite. In un paese dove non sempre c’è disponibilità d’acqua, ovviamente non potabile, anche le quotidiane pratiche igieniche non sono scontate, così ho pensato di non mettermi a rischio, o almeno limitare i danni. Inoltre ero curiosa di conoscere da vicino l’operato di una ong, capire se c’è spazio per un po’ di antropologia.
La tesi parla quindi di relazionalità. Relazioni che si instaurano sul campo e non solo limitatamente al momento dell’etnografia, ma anche con chi ha lasciato traccia dentro di me, relazioni che scaturiscono dall’incontro, che segnano la storia e determinano il futuro.
      
          Ho scelto di tornare in Africa perché ne sono affascinata e perché credo che questa terra con le sue genti possa trasmettere molto. E’ difficile spiegare una propensione, una passione, un interesse non facilmente esprimibili senza correre il rischio di cadere nella retorica, ma sento che ogni volta che torno in Africa scopro relazioni e sentimenti nuovi. Dalle vicende storiche si coglie come i Karimojong siano stati sottovalutati o esiliati da uno sviluppo nazionale, purtroppo per ignoranza, per la non volontà di incontrarli perché subordinati ad interessi economici e di necessità espansionistiche dell’Europa colonizzatrice.
          Ricordo ancora la sensazione che ebbi quando mi sedetti sulle dune del deserto e guardai verso un orizzonte immenso e monotono, e quella visione libera fino a dove la sabbia e il cielo si incontrano non mi fece pensare ad una terra noiosa e senza spessore, ma desiderai avere la possibilità di tornarvi più e più volte, a scoprire come la gente vive, e così ogni volta quando mi trovai ad osservare la savana karimojong, la fine del deserto prima che inizi il mare a Massawa o il sole che tramonta tra le dune della Tunisia. Immersa in quel mare di sabbia africana affiora nella mia mente un sentimento che Leopardi aveva saputo esprimere e descrivere trasmettendomi quelle sensazioni.

  […]
    Ma sedendo e mirando, interminati
    spazi di là da quella, e sovrumani
    silenzi, e profondissima quiete
    io nel pensier mi fingo; ove per poco
    il cor non si spaura. E come il vento
    odo stormir tra queste piante, io quello
    infinito silenzio a questa voce
    vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    e le morte stagioni e la presente
    e viva, e il suon di lei. Così tra questa
    immensità s’annega il pensier mio:
    e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Tapac è un piccolo paese al di là del monte Moroto verso il Kenya. Si trova all’interno di un’ampia vallata con qualche villaggio arrampicato sui monti. Il centro è a valle, con le case di terra, i negozietti, una piccola scuola, il dispensario e un campo da calcio, ovviamente la chiesa. Su per i monti si scorgono i classici villaggi, però senza recinto attorno, e le donne che salgono e scendono lungo un sentiero irto per andare a fare rifornimento d’acqua e di qualunque altra cosa.
Ricordo con nostalgia la visita a Tapac, forse perché è stata l’unica notte che ho passato al di fuori della mia struttura d’accoglienza. Vi è un’ampia zona dei Padri Bianchi, recintata con della rete e all’interno si trova la loro casa, divisa da quella delle ragazze di servizio, gli uffici, la cucina, la dispensa, la sala da pranzo e tre piccole stanze per accogliere gli ospiti. Noi eravamo in cinque, due stanze da due e una singola. Prima dell’imbrunire arriva un giovane prete per passare lì la notte, così devo lasciargli la mia camera in cima alla collina e la ragazza di servizio mi offre la sua, in una casetta ai piedi della collina ma pur sempre all’interno della rete, mi avverte di non far tardi perché sono vicino alla recinzione e i soldati alla sera si aggirano ubriachi. Scende la notte e mi chiudo all’interno. La casa è molto piccola, la porta è a destra, mi trovo subito in un primo ambiente con solamente un tavolo addossato alla parete con stesa una piccola tovaglia, poste sopra due tazze e due bottiglie, due sedie e due porte ai lati del tavolo. Avevo capito che la ragazza, Dorchas, dovesse dormire lì con me e la cosa mi rassicurava, ma il silenzio mi dice che sono sola, la mia stanza è a sinistra. Entro. Una lampada ad olio diffonde una fioca e calda luce, fuori il vento è freddo. Il letto è fatto con una coperta di lana, un piccolo comodino con due orecchini e una bauletto chiuso. Dispongo sul tappeto le mie cose e mi preparo per dormire. Abbasso la fiamma della lampada ad olio fino a che il buio mi avvolge completamente e ascolto i suoni della notte.
Sarebbe stato meglio se mi fossi addormentata immediatamente, il lucchetto della porta continua a sbattere, sento rumori metallici anche alle finestre, mi fa paura, so di essere chiusa dentro, ma sono comunque isolata e il fatto di sapere dei soldati lì attorno non mi tranquillizza.
Finalmente capisco: il vento si è fatto così forte da far muovere il lucchetto esterno e altre cose presenti sulla lamiera della porta e delle finestre. Torno a godermi il momento prima del sonno finché sento battere alla porta. E’ già mattina ma non capisco chi possa essere, poi riconosco la voce di Dorchas e le apro, si era dimenticata le chiavi della cucina.
Dopo colazione andiamo in visita ai villaggi della montagna con Mark, un ragazzo di Tapac che ci fa da guida a traduttore. Entro nel villaggio in cima e subito un uomo mi chiede di sposarlo, ringrazio ma sono costretta a rifiutare, devo far ritorno in Italia, ma si inserisce un altro ragazzo che scherzando chiede quante mucche valgo. Cento è la risposta. Effettivamente è un buon prezzo e posso pensarci, ma lui dice che inizierà a pagarle solo quando mi vedrà ritornare dall’Italia. Come faccio ad essere sicura che se torno nuovamente qui lui davvero mi vorrà sposare? Voglio che si impegni a mantenere la promessa, devo avere una certezza.
Si fa avanti una piccola signora, molto anziana con i capelli bianchi e un po’ gobba, porta le mani al collo, ha molte collane di perline e vari oggetti appesi, da queste ne toglie una di metallo e me la mette al collo, è la mia futura suocera!
Con Mark mi assicuro che stiamo tutti scherzando, perché la collana di metallo appartiene solamente alle donne già sposate e non vorrei mai portarla via a qualcuna. Non me la sento di accettare, ma la piccola signora insiste divertita, la ringrazio e le dico almeno di farmi sapere il suo nome.
Sara.
Sono scesa al paese, ho comperato un po’ di fagioli, zucchero e sapone e li ho portati a Sara, per ricambiare il regalo. Dopo di che ci siamo riuniti nella capanna-salotto con un po’ di loro a festeggiare l’incontro con un po’ di birra locale.

Questo racconto parla di matrimonio, di regalo, di scambio, di relazione e di incontro. Di accoglienza, che mi è stata data dai Karimojong della montagna.