venerdì 3 settembre 2010

Ejok Ejoka




L’incontro, l’ascolto, il mettersi in discussione, l’incomprensione e lo scandalo come anche l’apprendere sono esperienze che nascono dalla relazione che l’antropologo si trova a sostenere nel momento in cui va sul campo. Andare è un’espressione all’infinito che con una pennellata di romanticismo affascina e fa fantasticare chi rimane e mette in gioco chi va. Molte sono le fasi del prima e il dopo forse, a volte, non ha fine, di certo non termina con il decollo di un aereo. Ecco un collegamento tra la mia tesi in Eritrea e il campo in Karamoja. Un ritorno in Africa orientale. Nel precedente lavoro mi sono concentrata sulla stregoneria e sulla possessione, un tema che parla di relazioni tra un io e le proprie convinzioni, tra un io e i propri sistemi di credenze, che si sono modificati nel corso della storia e del tempo, che hanno portato a nuovi incontri, relazioni e trasformazioni, anche di quel mondo sovrannaturale e invisibile ma non per questo non presente. E’ anche una relazione tra chi è posseduto e chi non lo è, tra chi ci crede e chi no, tra chi aiuta e chi viene aiutato, tra i cristiani puri e tra chi professa una forma religiosa unendo la fede nel Dio cristiano alla credenza in altre entità come spiriti  e altre figure appartenenti al mondo sovrannaturale. E’ una storia di relazioni con il passato, con il colonialismo, con la propria cultura che si manifesta anche in un unico atto sincretico, quello della persona posseduta da uno spirito zar che si reca in un paesino d’ acqua miracolosa in mano a sacerdoti ortodossi.
Nella terra dei Karimojong ho voluto approfondire la relazione multipla e sincretica all’interno di questa realtà che sembra una ma ne racchiude mille, mille modi di essere e di essere visti. Ho pensato a Moroto come a un fiore, una margherita, una rosa o un fiore d’ibisco con il suo colore e il suo profumo, composto di petali, e ogni petalo è una dimensione relazionale, è un modo di vedere la realtà e un modo diverso di essere visto ed inteso.
La relazionalità riguarda vari livelli: io che incontro i locali, ma prima di averli incontrati di persona li ho incontrati nei libri, descritti con gli occhi di qualcun altro. Poi ci sono loro che incontrano me, non la prima bianca in quella terra, in quella terra di incontri tra bianchi e neri non sempre andati a buon fine. E tanti bianchi, ognuno con un motivo diverso ma tutti lì, che guardano con i loro occhi alla Karamoja e ai suoi abitanti, le voci che emergono maggiormente sono un po’ superficiali perché li descrivono come gente povera, primitiva e senza possibilità di sviluppo, ma allo stesso tempo gente forte e fiera che vive in un ambiente dal quale nessuno di noi ne uscirebbe vivo, gente che necessita di qualche mezzo in più perché non è stupida, e quindi chi aiuta giustifica così la propria presenza in Karamoja, una presenza necessaria affinché i Karimojong possano realizzare una vita migliore. In questa terra vegliata dagli antenati che in cielo vivono come vivevano in terra e dove gli spiriti sono spesso interpellati ci sono andata io, con un approccio antropologico, per incontrare i suoi abitanti e scoprire come loro stessi si guardano e che strategie utilizzano per emergere dal clima di relazioni in cui occhi di bianchi estranei convergono in un unico centro, la Karamoja, e una voce alza la mano, nera, per esporre il proprio punto di vista.

Ho sempre subito il fascino dell’Africa, ricordo ancora l’emozione della prima volta che ci andai e quando fissavo negli occhi le persone in aereo con me, occhi profondi e spesso lucidi, a volte cupi, il mio sguardo sembrava chiedergli il permesso di entrare a casa loro. Quando sono scesa dall’aereo, questa volta ad Entebbe, ho sentito lo stesso profumo caldo di quell’aria africana, difficile da descrivere, ricordava l’odore della terra quando piove, ma secco, ed ha risvegliato in me tutti i ricordi dell’Eritrea. Un'altra relazione da non sottovalutare è il collegamento con la precedente ricerca. In questo secondo campo sono partita molto sicura e poco timorosa dello spaesamento e il trovarsi lontano da casa, in attesa di situazioni ed emozioni già vissute o provate qualche anno prima, ma per quanto possa essere d’aiuto avere un po’ di esperienza ogni contesto è a sé. Ho scelto la dimensione dell’organizzazione non governativa perché sono partita da sola ed è stato impossibile trovare dei contatti in loco, impossibile pensare di prenotare una camera in un albergo in Karamoja e muovermi in autonomia, prima di tutto per questioni di sicurezza. Anche la diffusione consistente di malattie importanti ha avuto la sua rilevanza nella fase di preparazione: la malaria è endemica ed è il rischio principale oltre alla tubercolosi e la meningite. In un paese dove non sempre c’è disponibilità d’acqua, ovviamente non potabile, anche le quotidiane pratiche igieniche non sono scontate, così ho pensato di non mettermi a rischio, o almeno limitare i danni. Inoltre ero curiosa di conoscere da vicino l’operato di una ong, capire se c’è spazio per un po’ di antropologia.
La tesi parla quindi di relazionalità. Relazioni che si instaurano sul campo e non solo limitatamente al momento dell’etnografia, ma anche con chi ha lasciato traccia dentro di me, relazioni che scaturiscono dall’incontro, che segnano la storia e determinano il futuro.
      
          Ho scelto di tornare in Africa perché ne sono affascinata e perché credo che questa terra con le sue genti possa trasmettere molto. E’ difficile spiegare una propensione, una passione, un interesse non facilmente esprimibili senza correre il rischio di cadere nella retorica, ma sento che ogni volta che torno in Africa scopro relazioni e sentimenti nuovi. Dalle vicende storiche si coglie come i Karimojong siano stati sottovalutati o esiliati da uno sviluppo nazionale, purtroppo per ignoranza, per la non volontà di incontrarli perché subordinati ad interessi economici e di necessità espansionistiche dell’Europa colonizzatrice.
          Ricordo ancora la sensazione che ebbi quando mi sedetti sulle dune del deserto e guardai verso un orizzonte immenso e monotono, e quella visione libera fino a dove la sabbia e il cielo si incontrano non mi fece pensare ad una terra noiosa e senza spessore, ma desiderai avere la possibilità di tornarvi più e più volte, a scoprire come la gente vive, e così ogni volta quando mi trovai ad osservare la savana karimojong, la fine del deserto prima che inizi il mare a Massawa o il sole che tramonta tra le dune della Tunisia. Immersa in quel mare di sabbia africana affiora nella mia mente un sentimento che Leopardi aveva saputo esprimere e descrivere trasmettendomi quelle sensazioni.

  […]
    Ma sedendo e mirando, interminati
    spazi di là da quella, e sovrumani
    silenzi, e profondissima quiete
    io nel pensier mi fingo; ove per poco
    il cor non si spaura. E come il vento
    odo stormir tra queste piante, io quello
    infinito silenzio a questa voce
    vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    e le morte stagioni e la presente
    e viva, e il suon di lei. Così tra questa
    immensità s’annega il pensier mio:
    e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Tapac è un piccolo paese al di là del monte Moroto verso il Kenya. Si trova all’interno di un’ampia vallata con qualche villaggio arrampicato sui monti. Il centro è a valle, con le case di terra, i negozietti, una piccola scuola, il dispensario e un campo da calcio, ovviamente la chiesa. Su per i monti si scorgono i classici villaggi, però senza recinto attorno, e le donne che salgono e scendono lungo un sentiero irto per andare a fare rifornimento d’acqua e di qualunque altra cosa.
Ricordo con nostalgia la visita a Tapac, forse perché è stata l’unica notte che ho passato al di fuori della mia struttura d’accoglienza. Vi è un’ampia zona dei Padri Bianchi, recintata con della rete e all’interno si trova la loro casa, divisa da quella delle ragazze di servizio, gli uffici, la cucina, la dispensa, la sala da pranzo e tre piccole stanze per accogliere gli ospiti. Noi eravamo in cinque, due stanze da due e una singola. Prima dell’imbrunire arriva un giovane prete per passare lì la notte, così devo lasciargli la mia camera in cima alla collina e la ragazza di servizio mi offre la sua, in una casetta ai piedi della collina ma pur sempre all’interno della rete, mi avverte di non far tardi perché sono vicino alla recinzione e i soldati alla sera si aggirano ubriachi. Scende la notte e mi chiudo all’interno. La casa è molto piccola, la porta è a destra, mi trovo subito in un primo ambiente con solamente un tavolo addossato alla parete con stesa una piccola tovaglia, poste sopra due tazze e due bottiglie, due sedie e due porte ai lati del tavolo. Avevo capito che la ragazza, Dorchas, dovesse dormire lì con me e la cosa mi rassicurava, ma il silenzio mi dice che sono sola, la mia stanza è a sinistra. Entro. Una lampada ad olio diffonde una fioca e calda luce, fuori il vento è freddo. Il letto è fatto con una coperta di lana, un piccolo comodino con due orecchini e una bauletto chiuso. Dispongo sul tappeto le mie cose e mi preparo per dormire. Abbasso la fiamma della lampada ad olio fino a che il buio mi avvolge completamente e ascolto i suoni della notte.
Sarebbe stato meglio se mi fossi addormentata immediatamente, il lucchetto della porta continua a sbattere, sento rumori metallici anche alle finestre, mi fa paura, so di essere chiusa dentro, ma sono comunque isolata e il fatto di sapere dei soldati lì attorno non mi tranquillizza.
Finalmente capisco: il vento si è fatto così forte da far muovere il lucchetto esterno e altre cose presenti sulla lamiera della porta e delle finestre. Torno a godermi il momento prima del sonno finché sento battere alla porta. E’ già mattina ma non capisco chi possa essere, poi riconosco la voce di Dorchas e le apro, si era dimenticata le chiavi della cucina.
Dopo colazione andiamo in visita ai villaggi della montagna con Mark, un ragazzo di Tapac che ci fa da guida a traduttore. Entro nel villaggio in cima e subito un uomo mi chiede di sposarlo, ringrazio ma sono costretta a rifiutare, devo far ritorno in Italia, ma si inserisce un altro ragazzo che scherzando chiede quante mucche valgo. Cento è la risposta. Effettivamente è un buon prezzo e posso pensarci, ma lui dice che inizierà a pagarle solo quando mi vedrà ritornare dall’Italia. Come faccio ad essere sicura che se torno nuovamente qui lui davvero mi vorrà sposare? Voglio che si impegni a mantenere la promessa, devo avere una certezza.
Si fa avanti una piccola signora, molto anziana con i capelli bianchi e un po’ gobba, porta le mani al collo, ha molte collane di perline e vari oggetti appesi, da queste ne toglie una di metallo e me la mette al collo, è la mia futura suocera!
Con Mark mi assicuro che stiamo tutti scherzando, perché la collana di metallo appartiene solamente alle donne già sposate e non vorrei mai portarla via a qualcuna. Non me la sento di accettare, ma la piccola signora insiste divertita, la ringrazio e le dico almeno di farmi sapere il suo nome.
Sara.
Sono scesa al paese, ho comperato un po’ di fagioli, zucchero e sapone e li ho portati a Sara, per ricambiare il regalo. Dopo di che ci siamo riuniti nella capanna-salotto con un po’ di loro a festeggiare l’incontro con un po’ di birra locale.

Questo racconto parla di matrimonio, di regalo, di scambio, di relazione e di incontro. Di accoglienza, che mi è stata data dai Karimojong della montagna.



1 commento:

  1. Ciao sara,sono l'Anita,la tua parrucchiera,e bellissimo il tuo blog,spero tutto ok:)auguri per la tua avventura,e ti auguro sopratutto tanta fortuna,ci vediamo presto,la tua mamma mi racconta sempre di te quando viene farsi capelli.....a presto,stammi bene:)un bacio

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