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giovedì 30 giugno 2011

Un’antropologa in rete


Che cosa ci fa un’antropologa in rete?
Sono passata dalle persone reali alle persone virtuali: dalle comunità dei villaggi africani in cui ci si trasmette il sapere per via ereditaria, ai Kallawaya boliviani con doña Justina che per sapere come sta suo marito lontano da lei giorni di cammino guarda come volano le aquile, alla comunità telematica dove la forma prima di comunicazione è virtuale, dove le persone si sentono continuamente e costantemente in contatto perché si geolocalizzano e condividono foto in tempo reale.
Anche questa è una comunità e anche questo è contatto: è diventata condivisione. Nella rete si sono generati veri e propri gruppi sociali, una vera e propria cultura trasversale rispetto agli altri sistemi culturali, una cultura che si autoalimenta, coerente con se stessa e in se stessa, una cultura che attraverso un monitor ti permette di essere nel mondo, e tramite la tua vetrina virtuale, che arredi tu, puoi interagire dicendo chi sei o celando aspetti di te. Pedro Almodovar ha detto che “tanto più si è autentici quanto più si assomiglia all’immagine che si ha di sé”. Ora viviamo in una società che ci etichetta spesso per provenienza e ruolo sociale, attraverso la rete c’è anche chi si spoglia di vestiti dati da altri per essere se stesso, o si traveste da qualcuno per entrare nel palcoscenico della propria-altra vita. I guerrieri africani parlano di sé mediante l’ausilio di tatuaggi o in alcune società un rito di passaggio è ricordato da una cicatrice, altri scelgono che foto pubblicare sul proprio profilo facebook, flickr o altro…
Ed ora, spesso, il primo contatto, avviene prima tramite facebook o chat, poi per sms (il telefono di casa non esiste più) e poi personalmente, dopo che già sai data di nascita, musica preferita, amici in comune e probabilmente hai visto anche le foto dei compagni della scuola materna.
E qui di antropologia si potrebbe iniziare a parlare, in Italia dico...
Ma veniamo a noi, che cosa c’entro io con tutto questo? Ci sono dentro, e ci ho pensato da quando Nebil ha iniziato a raccontarmi della sua idea, della sua app per Iphone:

-Voglio fare una cosa semplice, voglio che le persone possano dire semplicemente come si sentono: in o out, per 90 minuti. Se io voglio sapere come sta Nicola o Marta adesso lo vedo dall’app.

Può succedere: inizi la giornata e sei Out, poi accade qualcosa e ti senti In, e lo dici agli altri, ai tuoi amici, condividi in tempo reale tramite Iphone il tuo stato d’animo, è la fotografia del tuo stato d'animo in un particolare momento, in un particolare posto, lo è anche per i miei amici che non sono vicino a me

-Ok Nebil ci sono… e poi?

E poi se ne è parlato tra una pausa caffè e l’altra, e poi di nuovo tra noi, e con gli amici e colleghi, e poi circola la prima versione beta, ne parliamo al sole e in chat perché le idee ci sono e c’è fermento… ci stiamo pensando…

Sara: devi trovare il tramite. Il problema di molti social network è che all'inizio ti fanno credere di aumentare la comunicazione e facilitarti la vita, in realtà annichiliscono i rapporti umani

Nebil: infatti ti impongono un modo di comunicare falsato...
io voglio tenere la comunicazione al minimo e cercare di aiutarti a cogliere quell'attimo in cui pensi
"oggi non va proprio..."
"mi sento felice"
"ti stimo"
che corrispondono rispettivamente a "sono out", "in", "ti dedico un IN", "ti dedico un out"

Sara: allora fai l'app che ti permette di inviare il tuo status a qualcuno, uno scambio di status e il regalo dello scambio di status è
....
ta ta ta
5 minuti di vita reale dedicati a questa persona

Nebil: wow!

Sara: da risolversi nella giornata. Prova a pensare: adesso stiamo chattando e parlando di sta cosa
io però sbircio con l'occhio per vedere la tua reazione quando ti scrivo... questo vuol dire che non basta la comunicazione via skype

Nebil: anche io...

Sara: quindi se io regalo uno status a qualcuno
sono curiosa di sapere come la prende
e i 5 minuti di vita reale mi fanno capire questo
i 5 minuti sono il modo di spiare chi chatta con te

Nebil: questi 5 minuti di vita reale... in cosa consistono?
è vero che devo sapere la reazione dell'altro
per esempio
io adesso sono out
tu mi dedichi un in
e il mio prossimo stato sarà.... un raggiante IN!
quindi tu in teoria sarai un po’ contenta..

Sara: sono 5 minuti di un caffè o quel che è...
sì son più contenta
se decidi di condividere con me il tuo status vuol dire che con me vuoi stabilire una relazione
tu decidi di dire a qualcuno come stai
quindi i 5 minuti servono per staccarsi dalla vita virtuale e incontrarsi in quella reale!

Sto pensando a fb, tante volte la gente condivide immagini o foto ma spesso e volentieri vuoi solo raggiungere una o poche persone, che sono quelle che commentano, perché magari son lì con te, quindi... saltami sti giochetti e...
...
knocking your mind!

Nebil: fico!
beh insomma dopo aver bussato 
io quasi quasi metto "adesso chiudi l'app e passa 5 minuti con..."
pensa se chiudessi automaticamente l'app!!!!

Nebil: Sara
un mio amico mi ha bussato
sono felice

Il knock on your mind è nato così… è un sassolino lanciato alla finestra di qualcuno. Non deve essere una cosa sdolcinata, è un modo per riprendere il contatto umano spesso spersonalizzato in rete. E’ dire “ti ho pensato, dimmi davvero come stai, mi interessa”. Punto. E l’app finisce qui, quando bussi, per lasciar iniziare i 5 minuti di vita reale con qualcuno, ora sta a te accordarti come e quando. 

lunedì 4 ottobre 2010

Don Isaia

Ora che sono in moto l'aria diventa ancora più fredda ma le lievi lacrime che affiorano non sono solo per il vento. Succede sempre così quando inizio a conoscere un luogo; e lo vivo davvero nel momento in cui chi lo abita me lo presenta attraverso i racconti e le esperienze, donandomi frammenti della propria vita. La luce del sole sta calando quando don Isaia mi abbraccia e mi ripete "non si dimentichi di noi, non si dimentichi di noi", mi guarda salire sulla moto e mi augura buona fortuna.


Abbiamo appena finito di pranzare ed arriva il momento del saluto:
"Sara, quando tornerà?"
"Non lo so, spero presto. Ora sarò in giro per la Bolivia per due mesi, forse finiti questi due mesi tornerò, o forse dovrò tornare in Italia..."
"Quando tornerà qui si ricordi di venire da me"
"Certo"
"E le insegnerò tutto quello che so, le piacerebbe sapere delle piante e come curare?"
"Certo, è per questo che sono qui"
"Allora sa dove trovarmi"
"Posso tornare questo pomeriggio? E' a casa?"
"Sì sono a casa"


Don Isaia vive fuori dalla città dove le strade non sono asfaltate e dove le case sono di legno o terra. Il suo salotto è all'aperto e mentre parliamo la sua signora sta cuocendo la cena e i bambini giocano felici nella terra. Il tavolo e le sedie sono di legno come anche la piccola costruzione alla nostra destra che ospita un letto. La proprietà è recintata e i bambini corrono entrando e uscendo dalla porta.
Isaia sorride orgoglioso sporgendomi i libri dai quali ha studiato, li guarda come fossero la prova del suo sapere che non si limita alla semplice conoscenza delle erbe medicinali ma si estende al mondo dell'occulto e della magia nera e verde, ovvero quella dell'amore. E' importante conoscere per sapere chi combattere perché la visione totale della complessità del reale ci permette di muoverci con cognizione di causa. Isaia ha una sua personale idea di ciò che è bene e di cosa significa aiutare, si definisce operatore di magia bianca, anche se di magia non si parla dato che opera con erbe, radici e cortecce. La sua scelta di diventare uomo di medicina nasce da una risposta vittoriosa alla sua cecità, cecità dovuta ad un'azione maligna di uno stregone probabilmente mosso da qualche persona invidiosa. Qui la conoscenza erboristica si fonde con la religione e con l'azione divina che porta ad una soluzione: il Signore gli dà la forza per guarirsi da solo. Chiede a sua moglie di prendere le foglie di una certa pianta e di applicarle sui suoi occhi. Il giorno seguente riacquistò la vista e iniziò la sua carriera da erborista studiando alla Sobometra de La Paz.
È un racconto di vita molto comune tra i medici tradizionali, anche africani, i quali devono prima vivere una forte esperienza di malattia che consente loro di acquisire la conoscenza della sofferenza per poi sconfiggerla, questo percorso gli permette di testare il rimedio per poi proporlo ad altri bisognosi.
Oltre agli attestati che con cura ripone in una cartellina mi sporge con orgoglio delle piccole lettere di pazienti che dichiarano di esser guariti dopo un suo intervento. Le parole battute a macchina e le rughe sul viso di Isaia non tradiscono gli anni trascorsi a compiere questo lavoro, che purtroppo ora nessuno dei suoi figli vuole intraprendere.